C’era una volta in Texas…

Beato quel popolo che non ha bisogno d’eroi. Beato proprio, perché noi della “bassa” abbiamo un disperato bisogno di credere in qualcuno, un modello di riferimento, un esempio per i nostri figli. Un eroe borghese, ma anche meno, ci basterebbe anche una persona normale, onesta, retta. Uno come tutti noi, che si fa il “mazzo” tutti i giorni e, quando ha finito di lavorare, torna a casa dalla sua famiglia, che ti saluta quando ti vede, mica uno montato. Uno con le debolezze di noi comuni mortali, che si arrabbia e si commuove, mica un superuomo che domini le folle. Siamo gente provata, che lotta tutti i giorni, e vorremmo un grande uomo che ci facesse sognare, un po’, e credere in noi stessi, almeno un po’. Non serve un gigante, bastano 196 cm. Tutti sono a conoscenza dell’impresa mitica che Marco Belinelli ha realizzato in questi sette anni negli U.S.A., e in particolare di come abbia coronato i suoi sforzi in questa ultima stagione nei San Antonio Spurs: campione nella gara dei tiri da 3, titolo NBA. Con colpevole ritardo ne hanno parlato tutti, ma va bene così. Quello che tanti non sanno, e forse nemmeno Marco lo sa, è l’impresa che ha realizzato nel cuore di noi piccoli uomini della bassa: sai Marco, quelli che brontolano perché devono alzarsi presto per andare a lavorare, quelli che sgomitano per trovare il loro posto al sole, quelli che le delusioni li uccidono tutti i giorni e fanno fatica a rialzarsi, tutte le volte, per prendere le stesse mazzate di sempre. Beh, Marco, quelle persone le hai fatte alzare alle 2 di notte, le hai riempite di orgoglio e le hai dato una speranza. Come avrai mai fatto? Continuando a fare “paniere”, nonostante tutto. Sì, nonostante tutto. Cosa succedeva in America da gara 1 a gara 5? Succedeva che un ragazzo di Sangio lottava ogni singolo giorno per conquistarsi un minuto in più in campo, sgomitava per un rimbalzo e un assist, pedalava a testa bassa perché delle critiche di tutti quelli che non avrebbero scommesso un dollaro su di lui non gliene fregava niente. E nemmeno gli fregava dei contratti milionari che gli potevano passare sotto il naso, lui aveva un sogno, lui aveva un obiettivo molto chiaro in testa, l’Anello. Gente tosta gli emiliani, non ci ha fermato un terremoto, cosa vuoi che sia una palla da fare entrare in un cesto. Il “mulo” Belinelli spronato dagli “speroni” texani se vuole ti ara lungo tutto il Rio Grande, mentre i “teorici” del basket disquisiscono se fosse troppo basso o troppo leggero, se difendesse poco o avesse poco talento. Quello che è successo in America è sotto gli occhi di tutti, ma quello che è successo alla “Boccia” e sui divani dei nottambuli persicetani ha un che di magico e inenarrabile. Gente con gli occhi gonfi dal sonno, incredula in questo ambiente surreale, che quando Flavio Tranquillo urlava “il Cinno di San Giovanni in Persiceto!” veniva percorsa da un brivido lungo la schiena, ragazzini e adulti che sbraitavano e applaudivano che Italia–Inghilterra a confronto era una partita del Poggio. Sempre meno poltrone vuote, gara dopo gara, fino a quando non sono bastate più le poltrone e le sedie, fino a quando tutti guardavano il cronometro indicare sempre meno, LeBron non crederci più e gli occhi dei compagni di nottata inumidirsi come se fossimo stati tutti in Texas a fare sentire la nostra voce. Quello che è successo si riassume nei tre secondi di pausa singhiozzanti tra “nessuno ha mai creduto in me in questi anni…” e “…alla fine ho vinto”. Marco alla fine ha vinto.

Luca Frabetti

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